martedì 6 dicembre 2011

Astronomia e astrologia nella tradizione indovedica


I Veda sono un'eredità preziosa dell'India. "Veda" significa conoscenza e include anche la conoscenza astronomica. In molte fonti vediche si può notare l'importanza attribuita all'osservazione del cielo e al calcolo delle posizioni del Sole e della Luna, dei principali pianeti e delle stelle. Nella storia dell'astronomia occidentale è stato quasi del tutto trascurato il contributo indovedico; è stato spesso ignorato perché considerato ascientifico e mitologico o perché si è pensato che attingesse alla tradizione greco-babilonese, e che quindi non costituisse un apporto originale. In realtà ci sono tracce, talvolta evidenti e talvolta nascoste nella poesia e nella metafora, di una profonda conoscenza astronomica racchiusa nei Veda in generale e in alcune loro sezioni in particolare.

Secondo l'attuale ricerca scientifica l'universo è una distesa immensa di milioni di galassie che interagiscono tramite l'attrazione gravitazionale. Esso è così vasto che un raggio luminoso lo attraversa tutto in circa quindici miliardi di anni. Alcune cosmologie che si avvalgono della teoria delle superstringhe, un nuovo metodo di concepire l'origine dell'universo, affermano che il nostro universo non è l'unico universo, ma che esistono "grappoli di universi". La Terra è un infinitesimale e fragile globo che si muove all'interno di questa vastità senza confini. Questo è anche ciò che i Veda tramandano. Infatti nel Bhagavata Purana, un'opera vedica risalente a 5.000 anni fa, viene per esempio descritto che "tutti gli universi sono raggruppati insieme e sembrano un'enorme agglomerato di particelle" (Bhagavata Purana 3.11.41), oppure che "ci sono innumerevoli universi oltre al nostro e benché siano estremamente estesi, si muovono come atomi in Te." (Bhagavata Purana 6.16.37); inoltre in molti passi si afferma che il pianeta Terra è solo uno dei tanti pianeti.

Nell'affrontare lo studio delle scritture vediche, e specialmente di quelle parti relative a contenuti scientifici, bisognerebbe liberarsi dai preconcetti di superiorità nei confronti degli antichi che potrebbero impoverire un'analisi dalla quale si può attingere grande saggezza e verità [1]. Gli antichi saggi vedici svilupparono le scienze astronomiche, mediche, del linguaggio, dell'architettura e della spiritualità in modo straordinariamente approfondito e preciso, tanto che ancora oggi sono tutt'altro che superati: antichi non è sinonimo di primitivi.


LA SCIENZA DEL TEMPO

Per millenni l'uomo si è chiesto che cosa sia il tempo e che tipo di influenza abbia sulla vita di tutti i giorni.
Nell'era moderna gli scienziati hanno cominciato a trattare più in profondità l'argomento, ma sono ancora ben lontani dall'afferrare completamente il significato del tempo. Per alcuni è solo una successione di istanti, o in altre parole un sistema di riferimento, un'illusione, ma per altri è l'essenza stessa dell'universo. Aristotele affermava che il tempo è lo studio del movimento nella prospettiva "del prima e del poi", Einstein ha introdotto il concetto di inseparabilità e relatività di spazio e tempo ma diceva che "il tempo non è nella fisica, non può essere oggetto di scienza", e Bergson confermava che il tempo è troppo complesso per la scienza. Il grande fisico russo e premio Nobel Ilya Prigogine spiega la natura del tempo introducendo il concetto di irreversibilità nella fisica come indicatore della freccia del tempo, o della sua direzione univoca [2].

In fisica un fenomeno si dice irreversibile quando non è possibile riportare allo stato iniziale un sistema reale senza un intervento energetico dall'esterno. Prigogine commenta: "... per me, l'uomo fa parte di questa corrente di irreversibilità che è uno degli elementi essenziali, costitutivi dell'universo." [3] Egli considera quindi l'irreversibilità, l'unidirezionalità dei processi fisici e quindi del tempo come principio creatore o organizzatore delle strutture del macrocosmo e del microcosmo; sostiene infatti che "dobbiamo considerare il tempo ciò che conduce all'uomo e non l'uomo come creatore del tempo." Negli scritti vedici tali concetti vengono trattati in modo alquanto approfondito. Uno dei risultati della teoria della relatività di Einstein è che il tempo appare essere più lento per corpi che viaggiano a velocità molto elevate, prossime a quella della luce; il tempo non è un'unità di misura fissa ma è variabile o relativo.

Un esempio di questa "dilatazione del tempo" si trova nel Bhagavata Purana (9.3.30-32) quando si narra di un uomo che volle raggiungere i pianeti celesti per porre alcune domande al Creatore; si fermò per venti minuti ma quando ritornò sulla Terra erano passati millenni; non vi ritrovò né familiari né amici. Questo Purana ci informa quindi che ci sono diverse scale temporali in diversi luoghi dello spazio cosmico. Nello stesso testo (3.11.4) viene spiegato che "Il tempo elementare viene misurato secondo lo spazio atomico che copre...." stabilendo in modo inequivocabile la stessa stretta connessione tra spazio e tempo elaborata dalla teoria di Einstein, oggi formalmente riconosciuta.

Nella Bhagavad-gita (11.32), la più famosa tra le Upanishad vediche, Krishna spiega: "Io sono il Tempo, il grande distruttore dei mondi"; viene qui indicata l'importanza del fattore tempo e del suo ruolo nella creazione. Il Tempo consuma le cose di questo mondo, compresi i nostri corpi che sono inesorabilmente destinati a morire. Il tempo è la sorgente di tutti i movimenti, è il supremo controllore del tri-guna [4], le tre energie che in-formano l'universo. Il tempo ha quindi vita propria separata dall'universo, anzi ne è all'origine, è la matrice che lo sostiene e che gli dà vita e significato.


ASTRONOMIA VEDICA

Gli scritti vedici sono una fonte inesauribile di importanti indicazioni che i grandi saggi del passato hanno elaborato ma soprattutto vissuto e realizzato. La presenza nei Veda di concetti astronomici che sono considerati attualmente di una certa modernità è piuttosto frequente e ne possiamo concludere che nell'antichità c'era un vivo interesse per la ricerca e l'osservazione scientifica. Non ci addentreremo nell'intricato campo dell'analisi particolareggiata di questi scritti, ma riporteremo qualche esempio per creare un orizzonte di senso. L'Aitareya Brahmana (3.44) dichiara: "In realtà il Sole non sorge e non tramonta mai.... poiché quando arriva la fine del giorno produce due effetti opposti, crea la notte per quelli che stanno sotto e il giorno dall'altra parte. Raggiunta la fine della notte crea il giorno per quelli che stanno sotto e la notte dall'altra parte. [5]"

E similmente nella Satapatha Brahmana (1.6.1-3) troviamo: "...dato che mentre i primi stanno ancora arando e seminando, gli altri stanno già raccogliendo e trebbiando... [6]". Nel Visnu Purana troviamo inoltre una chiara idea del funzionamento del fenomeno delle maree: "In tutti gli oceani la quantità totale di acqua rimane la stessa e non cresce né decresce; ma come l'acqua in un calderone si gonfia per il calore così le acque dell'oceano crescono al crescere della Luna. Le acque benché non aumentino né diminuiscano, si dilatano e si contraggono mentre la luna cresce e cala...."[7] E' interessante notare che il Markandeya Purana (54.12) descrive la Terra come schiacciata ai poli e rigonfia all'equatore, indicando che essa non possiede una forma perfettamente sferica, nozione astronomica di una certa attualità; viene descritto perfino che la causa del colore azzurro del cielo è la dispersione della luce solare (Markandeya Purana, 78.8, 103.9). Similmente è possibile trovare riferimenti in cui si afferma che il Sole si trova al centro del sistema solare (Markandeya Purana, 106.41) e che l'universo ha avuto origine da una sorta di stato condensato ad altissima temperatura, come milioni di soli estremamente brillanti (Bhagavata Purana 3.20.16) e che in seguito c'è stata una specie di esplosione o espansione (Bhagavata Purana 3.10.7), descrizione straordinariamente simile alla famosa teoria del Big Bang.


SCIENZA E FEDE

Un tempo tre uomini ciechi si avvicinarono ad un elefante, cominciarono a toccarlo e a congetturare. Il primo toccò una zampa e disse:" Oh, l'elefante è come un pilastro!", il secondo toccò la proboscide e disse "Oh, l'elefante è come un serpente!",
mentre l'ultimo toccò il fianco e disse: "Oh, l'elefante è come una grossa nave!". Chiaramente nessuno dei tre fu in grado di dare una descrizione appropriata dell'elefante, in quanto erano tutti e tre ciechi. Ci troviamo in una situazione simile quando studiamo l'universo; da una parte la limitazione dei nostri sensi (la cecità) e dall'altra il nostro stato mentale (i preconcetti) che ci porta a pensare e valutare in base alla nostra limitata esperienza e ai nostri paradigmi.

Per esempio siamo in grado di percepire solo una piccolissima parte dello spettro elettromagnetico: i nostri occhi vedono solo tra 400 micron e 800 micron circa, una frazione infinitesimale dell'insieme delle vibrazioni elettromagnetiche presenti nel nostro universo. Ma anche in questo range di frequenze i nostri occhi e i nostri preconcetti talvolta ci ingannano, infatti, per esempio, oggetti lontani ci sembrano piccoli anche se non lo sono. Oggi, per evitare tali errori, si usano apparecchiature scientifiche sempre più sofisticate e potenti che in parte risolvono queste problematiche. Eppure i dati da esse prodotti vengono poi comunque analizzati da esseri umani che sono soggetti agli errori di cui sopra. Si potrebbe dunque concludere che qualunque tipo di scienza è limitato in qualche modo dagli strumenti che usa.

Poiché i nostri sensi sono collegati alla mente e la mente può proiettare immagini nelle nostre percezioni, spesso vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere e non ciò che c'è veramente di fronte a noi, come gli uomini ciechi della storia. Gli scienziati prima della rivoluzione scientifica si ritrovarono in una simile situazione socio-culturale; essi notarono che spesso le convinzioni della gente sull'universo materiale erano frutto di particolari vedute religiose o filosofiche e non di qualcosa che poteva essere dimostrato. Controprova di questo è il famoso esperimento del padre della scienza moderna, Galileo Galilei: egli dimostrò che due oggetti di peso diverso che cadono dalla stessa altezza (la torre di Pisa) raggiungono la terra con la stessa velocità in contrasto con l'affermazione di Aristotele che affermava invece che oggetti di peso diverso cadono a velocità diverse.

La visione di Aristotele fu accettata per sedici secoli sulla base di una fede che ha le caratteristiche della fede cieca. Molti contemporanei di Galilei non accettarono che uno sconosciuto volesse contraddire il grande Aristotele e lo disprezzarono: in questo modo il loro modo di credere in Aristotele era uno stato mentale che impediva loro di vedere la realtà, l'elefante di fronte a loro. Naturalmente tutto questo e molto altro ancora ha portato il nascente movimento scientifico alla realizzazione che la religione spesso corrompe la percezione con la credenza o la fede cieca. Uno dei più drammatici esempi di questo conflitto fu l'argomentazione sulla centralità della Terra o del Sole nell'universo. Come Aristotele, Tolomeo era un pensatore greco che ebbe un'immensa influenza fino al quindicesimo secolo in Europa, le sue affermazioni sull'astronomia erano ancora accettate sulla "fiducia".

Era solo il suo punto di vista che la Terra è il centro del sistema solare e che il Sole le ruota attorno, ma altri pensatori greci e indiani avevano già dimostrato che la Terra è sferica e che il Sole è il centro del sistema solare. Per varie ragioni la Chiesa adottò la visione di Tolomeo assolutizzandola in modo ascientifico (fatto che probabilmente egli stesso come scienziato non avrebbe accettato) e la risposta a tutti coloro che tentavano di minare tale visione era la scomunica e la morte. Gli sfortunati effetti di questa "guerra" tra scienza e religione sono presenti ancora ai nostri giorni. Oggi si definisce scienza una teoria che abbia un costrutto logicomatematico consistente e che sia descrivibile tramite esperimenti ripetibili. Se solo una di queste due caratteristiche viene a mancare non si può parlare di scienza.

[1] Cfr. René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Milano 1989, ed. Adelphi.

[2] A tal proposito l'antico filosofo greco Parmenide affermava che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume e forniva quindi un paradigma interpretativo dei concetti esposti da Ilya Prigogine già millenni or sono.

[3] Ilya Prigogine, La nascita del tempo, Milano 1994, ed. Bompiani, pag. 21.

[4] La manifestazione materiale è regolata da tre forze o energie strutturanti; essa, pur essendo neutra in quanto non dotata di volontà propria è pervasa da una triplice energia detta in sanscrito tribuna. Cfr. Marco Ferrini, Cosmogonia Vedico-Puranica, Pisa 2002, Ed. Centro Studi Bhaktivedanta.

[5] M.Haug, Aitareya Brahmanam of the Rig Veda, Varanasi 1977, Bharatiya Publishing House.

[6] Eggeling J., The Satapatha Brahmana, Delhi 1978, Motilal Banarshidass.

[7] Wilson H.H., The Visnu Purana, Calcutta 1972, traduzione, Punthi Pustak, cap.1.


di Giridhari das

Fonte: https://sites.google.com/site/isvaraacademy/notizie/astronomiaeastrologianellatradizioneindovedica

domenica 27 novembre 2011

L'Orientalista guerriero. Omaggio a Pio Filippani Ronconi



Il conte professor Pio Filippani-Ronconi (1920-2010) è stato uno dei nostri maggiori orientalisti, sanscritista di vaglia, poliglotta ineguagliabile per le lingue più complesse e difficili non solo orientali ma anche occidentali, docente in Italia e con ampi riconoscimenti all'estero, autore di traduzioni fondamentali per la nostra cultura, di libri significativi, di centinaia di interventi e conferenze, ma soprattutto uomo di valore, adorato dai suoi studenti, personaggio eclettico, un pò "folle" come lui stesso ammetteva, e quindi difficile da tenere nelle righe del conformismo accademico e del politicamente corretto; egli ha avuto il solo torto di stare, come ormai si suol dire, "dalla parte sbagliata", oltre ad avere una concezione spirituale della vita. Una personalità così non si può deimenticare quando oggi si ricordano con libri, premi, cerimonie, convegni, incontri, commemorazioni, targhe, intitolazione di scuole e di strade uomini e donne di importanza immensamente inferiore. Sicchè abbiamo pensato di ricordarlo in questo modo: con un volume di scritti in cui abbiamo avvicinato sia le testimonianze personali di vita, significative e toccanti, illuminanti, sia i saggi che vanno a esaminare i libri e le tematiche che lo hanno reso famoso, magari non tutto quello di cui era un riconosciuto esperto, ma di certo i suoi aspetti più importanti. 

martedì 22 novembre 2011


"Siamo i figli di una guerra che non abbiamo fatto... Per aver aperto gli occhi su di un mondo disincantato siamo, più di qualsiasi altro, i figli dell'assurdo. In certi giorni il non‑senso del mondo ci pesa come una tara. Ci sembra che Dio sia morto di vecchiaia e che noi esistiamo senza uno scopo... Non siamo inaciditi: partiamo dallo zero. Siamo nati fra le rovine. Quando siamo nati, l'oro si era già trasformato in pietra".

P.van den Bosch

lunedì 7 novembre 2011

Demokratìa


STRANIERO E' necessario a questo punto esaminare tale questione in questa maniera, domandandosi cioè in quale di queste costituzioni venga a essere presente una scienza concernente il governo degli uomini, che è probabilmente la più difficile e la più importante da acquisire. Occorre infatti vederla per osservare con chiarezza quali persone debbano essere distinte dal re saggio, persone che pretendono di essere uomini politici e riescono a persuadere molti, ma in realtà non lo sono affatto.
SOCRATE E' proprio così infatti, che occorre fare, come il nostro discorso ci aveva suggerito.
STRANIERO Allora, non crederemo certo che sia possibile che una moltitudine in una città possa acquisire   questa scienza?
SOCRATE E come sarebbe possibile?
STRANIERO Ma forse in una città composta di mille cittadini è possibile che un centinaio o magari cinquanta acquisiscano questa scienza in maniera adeguata?
SOCRATE Se così fosse, questa sarebbe la più facile di tutte le arti: sappiamo infatti che tra mille uomini non potrebbero mai esserci tanti eccellenti giocatori di scacchi da poter reggere il confronto con tutti gli altri Greci; figuriamoci poi i re! In base al nostro ragionamento precedente, infatti, dobbiamo chiamare uomo regio chiunque possieda la scienza regia, sia che eserciti il potere sia che non lo eserciti.
STRANIERO Ricordi bene quanto abbiamo detto prima. Proseguendo il discorso, quindi, penso che occorra ricercare in cosa consista il retto governo riguardo a una, a due, o in ogni caso a pochissime persone, qualora avvenga che sia retto.
SOCRATE Certamente.
STRANIERO Riguardo a costoro, dunque, sia che governino su persone che li accettano o contro la loro volontà, secondo leggi scritte o senza leggi scritte, su cittadini ricchi o poveri, dobbiamo ritenere, come pensavamo poco fa, che esercitino il proprio potere secondo una certa arte. Noi ritenevamo questo discorso particolarmente valido per i medici: che ci curino per nostro volere o contro la nostra volontà, tagliando o bruciando o causandoci qualche altra sofferenza, seguendo regole scritte o in assenza di regole scritte, siano essi ricchi o poveri, noi li chiamiamo tutti quanti medici, finchè essi si prendano cura della nostra salute con arte, purificandoci specialmente mediante la sottrazione o l'aggiunta di qualcosa, ma solo a patto che, per il bene dei nostri corpi, tramutando il loro stato da peggiore in migliore, riescano a salvare, ciascuno con le proprie cure, l'oggetto di tali cure. E' così e non in altro modo che stabiliremo, a mio avviso, che questo è il solo discrimine del potere medico e di ogni altro.
SOCRATE Non vi è dubbio al riguardo.


(Il Politico di Platone)

domenica 6 novembre 2011

Keller e il gruppo Yoga (Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione)





Guido Keller (Milano, 6 febbraio 1892 – Otricoli, 9 novembre 1929) è stato un aviatore italiano ed uno dei partecipanti all'impresa di Fiume guidata da Gabriele D'Annunzio. Fu autore di un conferenza autobiografica dal titolo Nel pensiero e nelle gesta.
Personaggio scapigliato, apparteneva ad una famiglia aristocratica milanese di origine elvetica. Nel corso della prima guerra mondiale fu ufficiale pilota del Corpo Aeronautico Militare nella 91ª Squadriglia Aeroplani da Caccia comandata da Francesco Baracca.
Fu fondatore a Fiume del gruppo Yoga - che aveva come simbolo la svastica e la rosa a cinque petali e che fu un gruppo con tendenze esoteriche e naturistiche, si oppose alla frangia reazionaria fiumana (secondo quanto evidenziano gli scritti del gruppo Yoga pubblicati su Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione).

"Nel novembre 1920, ad avventura fiumana ormai quasi finita, Keller e Comisso decidono di pubblicare una rivista, settimanale, per diffondere le idee della Lega di Fiume. Rifacendosi a un vago misticismo indiano allora di moda, la chiamano «Yoga», con il sottotitolo «Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione»; alla sua sinistra è raffigurata una svastica, l'antico simbolo ariano del sole: «La Yoga riunirà sotto il suo segno l'antichissima e misteriosa svastica, tutti gli uomini forti e fieri, che ambiscono di spezzare questi falsi idoli che sono sulla terra e nelle credenze del nostro spirito, tutti gli uomini che hanno per numi Vita e Bellezza».
Ne usciranno solo quattro numeri; il tredici, venti, ventisette novembre e il quattro dicembre. Secondo Umberto Carpi è stato lo stesso D'Annunzio a contrastarne la pubblicazione, a causa delle reazioni negative espresse dalle forze più moderate presenti a Fiume. Le idee programmatiche della rivista sono esposte in due articoli, Prolegomeni Prospettive ltaliche, privi di firma, come del resto tutti gli altri; gerente responsabile è lo stesso Keller.
In breve: il «Genio della razza italica», aristocratico, individualista, è stato pervertito dalle idee democratiche e borghesi delle «razze negative», inglesi, francesi e soprattutto ebree, che si sono infiltrate in Italia per mezzo della borghesia ottocentesca. Costoro, con il pretesto di introdurre le idee di democrazia e uguaglianza «copiate» dalla rivoluzione francese e dal positivismo «materialista», hanno creato con la grande industria una massa di schiavi. E’ necessario tornare alle autentiche tradizioni dello «spirito italico», compiutamente espresso nel Rinascimento, e basate sul Principe, l'artigianato e sul «binomio perfetto di terra e mare». La maggioranza del popolo italiano deve dedicarsi all'agricoltura, alla pesca e ai commerci, liberando «dalla schiavitù delle industrie parassitarie lo stuolo degli operai».
Emblematico di queste concezioni è il breve articolo, comparso sul n. 3 del 27 novembre 1920, in favore del nazionalista croato Stefano Radic, capo del partito dei contadini:

Le sue idee sono queste: la Croazia è una terra contadina. Il governo della Croazia deve essere scelto tra i contadini. I croati devono restare come sono: vivere della terra. Stefano Radic ha l'anima da poeta e il cervello che antivede perché sa. La Croazia sta attraversando la crisi dell'uomo di campagna presso al quale la città ingrandendosi è venuta a confinare. Egli sente i suoi vestiti e le sue scarpe e le sue mani callose come aspetti inadatti al nuovo stato, ma egli non si può mutare il cuore e se un superficiale entusiasmo e meraviglia lo turba e male lo fa considerare: dura è la sua radice. Si guardi la Croazia dall'invasione industriale, sia questa americana, francese, tedesca o italiana - pensa Stefano Radic - l'Italia sta scontando la sua leggerezza nell'aver lasciato radicare nel suo suolo i templi ed i sistemi delle razze formali, Croazia, sappi che oggi essi sono le nostre pietre più indigeste si potrebbe soggiungere noi ed ammonire.

Nell'articolo Vogliamo vivere (20 novembre 1920, n. 2) vi è una feroce denuncia dell'alienazione del lavoro salariato, per «l'esaltazione dell'individualità»:

L'operaio moderno è più libero? è più felice? No, anzi è più schiavo, è più misero, perché crede di aver migliorato le sue condizioni, perché con ogni aumento di paga e con ogni diminuzione di lavoro crede di migliorare il suo stato. mentre diventa invece sempre più schiavo, sempre più abbietto. Che cosa fai tu, che cosa senti, operaio nell'officina? Sei lo schiavo di una macchina. Dotato dalla naturadell'intelligenza di un dio e della bellezza degli angeli, ti sei abbassato a servire una macchina. Il fuochista che consuma la sua vita (VITA! VITA!), per dar cibo alla vertiginosa locomotiva o alle insaziabili fornaci dell'insensato Transatlantico... è scontento della sua paga. Con quanta ragione. oh Dio creatore! L'unico suo torto è questo, credere che esista una paga sufficiente... per tale lavoro!

In «Yoga» vi sono anche articoli di carattere letterario e artistico, ispirati da Comisso, che si rifanno alla metafisica di Giorgio De Chirico e di suo fratello Alberto Savinio. In particolare, il saggio Anadioménon di Savinio, ripreso dalla rivista romana «Valori Plastici» e una prosa di Filippo De Pisis, amico di Comisso, Asilo infantile israelitico. «Voga», come il movimento metafisica, voleva restaurare i «valori dello spirito», di contro al materialismo positivista. Per questo si oppone al futurismo che invece esalta il meccanicismo e il modernismo. E’ questa la contraddizione di Keller; ama l'aeroplano, che era l'espressione più alta della tecnologia dei suoi tempi, ma disprezza la civiltà industriale. Del resto, come D' Annunzio, concepiva il velivolo come un prodotto artigianale che doveva, ispirandosi a Leonardo, imitare il volo degli uccelli. Scrive a tale proposito Sandro Pozzi, il legionario fiumano «legato a Keller da una strana amicizia rotta da frequenti e clamorosi litigi», nella sua biografia dell'amico:

Non certo il volo meccanico, né il motore rombante e travolgente l'avevano conquiso. Egli intese nell'aviazione una possibilità di evasione spirituale, un sublimarsi ed astrarsi della materia verso i misteri più alti e più puri della natura. E fu quell'alone eroico che l'aviazione ai suoi albori (con tanti suoi olocausti pionieri) effondeva, che l'attrasse ed affascinò: egli sempre andava là dove maggiore era ilrischio e la bellezza del sacrifìcio.

In occasione della firma del trattato di Rapallo (12 novembre 1920) che sanciva un compromesso tra il governo italiano e quello jugoslavo su Fiume e la Dalmazia, Keller progetta di rapire Giolitti mentre si recava in treno all'incontro. Fallito l'improbabile piano per la defezione dei suoi «seguaci», ripiega su un gesto dimostrativo. Vola su Roma e lascia cadere un vaso da notte, con dentro un mazzo di rape, sopra il Parlamento; unito vi è un biglietto: «Guido Keller - Ala azione nello splendore - dona al parlamento ed al governo che si regge col tempo, la menzogna e la paura, la tangibilità allegorica del loro valore». Getta anche un mazzo di rose rosse sul Quirinale in onore della regina madre di cui ricorreva il compleanno, e uno su San Pietro «per frate Francesco».
L'episodio ebbe un'eco vastissima su tutta la stampa nazionale e suscitò scandalo nella stessa Fiume, dove i moderati, che stavano per avere il sopravvento, cominciarono ad emarginarlo, definendolo un «pazzoide». Solo «Yoga» lo difende con un articolo pubblicato sul n. 3 del 27 novembre 1920 intitolato significativamente Montecagorio:

Molti giornali vogliono far passare il Keller per un pazzoide, figura secondaria di Fiume. Noi ricordiamo che egli, asso della Squadriglia Baracca, inarrivabile pilota, fu tra i primi e tra i più fidi seguaci di Gabriele D'Annunzio, al quale è legato da forte affetto. In Fiume d'Italia Keller è una testa di ferro per la quale la conclusione amorosa del Tasso è una sentenza sublime che santifica le labbra della pura follia «amore tanto esser più nobile quanto è men governato dalla ragione». Egli è l'intelligenza, l'audacia, la fede= pazzia. Come tutti i buoni volatori, Keller è un folle, è un Ulisse dal «Folle volo». È, in una parola, un Italiano, indicibilmente Italiano; è un irregolare, è un eretico, tutto volitivo. Ha in sé un po' del Cecco Angiolieri e del Fanfulla, spirito bizzarro, non scettico, fiero, che da solo vale tutta la
ballonzolante moltitudine dei greppaioli di Montecagorio. E un soldato di ventura, che si batte per un soldo d'ideale e di libertà; è uno che non ha intorno al collo la corda della libertà ufficiale, né affonda nella greppia il muso ingordo con rumore di mandibole voraci. In quest'era di vigliaccheria e di vituperio della Patria Keller rappresenta fedelmente e con luce i soldati di ventura di Fiume, i belli lanzichenecchi della libertà e dell'eresia; i garibaldini spavaldi della libertà che volano e volando sputano, non dico sull'aiuola dantesca, ma sul caccatoio d' Italia e lanciano quelle spregiate crete che possono essere utilissime in ogni evenienza, a tutti i cagoia ed a tutti i Misiano dell'Italico Regno. Keller è il volatore fiumano tipico che vola con qualsiasi tempo, per ore e ore sul petroso Carso a venti metri da terra, leggendo e declamando, atterrando magari nelle doline senza minimamente scalfire le tele ed i legni del suo apparecchio; vola parlando alla sua mascotte: una civetta; vola tenendo per suo compagno di volo un paziente asinello dall'occhio umano. È un volatore magnifico."

(da L'aeronautica italiana: una storia del Novecento di Paolo Ferrari)

martedì 1 novembre 2011

Il Sistema dei Sistemi


Non vi sono nazioni, non vi sono popoli, non vi sono russi, non vi sono arabi, non vi sono terzi mondi, non c'è nessun ovest...

sabato 8 ottobre 2011



Stanno girando l'ultimo film
Dicono che sarà il migliore
E tutti noi abbiamo contribuito a realizzarlo
S'intitola La Morte dell'Occidente

I ragazzi di Fame
saranno tutti lì
Ci sarà coca-cola gratis per voi!
E tutte le scimmie dallo zoo
Faranno anche loro da comparse?

Stanno girando l'ultimo film
Dicono che sarà il migliore
E tutti noi abbiamo contribuito a realizzarlo
S'intitola La Morte dell'Occidente

Una stella sta sorgendo
Nel nostro cielo del Nord
E su di essa veniamo crocifissi
Una catena d'oro
E' attorcigliata intorno a questo mondo
Siamo governati da chi mente

lunedì 30 maggio 2011

Jünger e i prossimi Titani



L'idea del progresso
"E' per me un antropomorfismo con il quale l'uomo ha tentato di leggere la storia. Un surrogato dell'idea di "spirito del mondo". Bisogna prendere le distanze e osservare piuttosto l'universo e la sua storia dal punto di vista del principio della conservazione dell'energia. La potenza del cosmo rimane sempre la stessa, non ci sono progresso o regresso né accelerazione o decrescita che possano modificarla. Ciò che cambia sono le figure, le forme che la storia, anzi, la terra produce incessantemente dal suo profondo. Il problema che qui vedo sorgere è un altro: possiamo considerare l'uomo, questa apparizione sovrana nella storia dell'universo, responsabile della sua evoluzione? [...] Il naufragio del Titanic è un simbolo grandioso, a cominciare dal nome stesso del piroscafo per arrivare fino al modo in cui avvenne il naufragio. E' l'affondamento dell'idea stessa di progresso: la perfezione della tecnica è turbata dall'incidente; al baldanzoso ottimismo subentra il panico, al massimo lusso la distruzione, all'automatismo la catastrofe. Ricordo che alla fine della guerra l'immagine del Titanic ricorreva nelle lettere che Carl Schmitt e io ci scrivevamo, con la sensazione di essere ormai nelle profondità del Malström: a Berlino, sotto i pesanti bombardamenti, anche lui si trovava in una situazione molto difficile, apocalittica."

L'Anarca figura romantica?
"L'uomo romantico in qualche modo fugge dalla realtà e si costruisce con la fantasia poetica e con il sogno un proprio tempo e un proprio spazio. L'Anarca invece conosce e valuta bene il mondo in cui si trova, ed è capace di ritirarsi da esso quando gli pare. In ciascuno di noi c'è un fondo anarchico, un impulso originario all'anarchia. Ma non appena si nasce esso viene limitato dal padre e dalla madre, dalla società e dallo Stato. Sono salassi inevitabili che l'energia originaria dell'individuo subisce e a cui nessuno sfugge. Ma l'elemento anarchico rimane latente, e può erompere come lava: può liberare l'individuo, ma anche distruggerlo. L'Anarca sa che la libertà ha un prezzo, e sa che chi vuole goderne gratis dimostra di non meritarla. Per questo non va confuso con l'anarchico: quest'ultimo si relaziona con la società, sta con essa in un rapporto negativo, che si manifesta in maniera virulenta nella disponibilità dell'anarchico a praticare il terrore per raggiungere i propri scopi. All'Anarca invece la società gli è indifferente. L'Anarca non ha società. La sua è un'esistenza insulare. [...] Per me il bosco non è soltanto come per Heidegger il luogo naturale concreto in cui vivono e operano i contadini della Foresta Nera. Certo, è anche una dimensione naturale, ma è soprattutto una metafora per indicare un territorio vergine in cui ritirarsi dalla civiltà ormai segnata dal nichilismo, in cui sottrarsi dagli imperativi delle chiese e alle grinfie del Leviatano. [...] Quanto più si radicalizza un estremo, tanto più affiora quello opposto. A rigore, dal punto di vista dell'Anarca, del grande Solitario, totalitarismo o democrazia di massa non fanno molta differenza. L'Anarca vive negli interstizi della società, la realtà che lo circonda in fondo gli è indifferente, e solo quando si ritira nel proprio mondo, nella propria biblioteca, ritrova la sua identità. In ogni caso è raccomandabile la freddezza: su una palude ghiacciata si avanza con maggior sicurezza e rapidità."  

Stato mondiale e nazionalismi 
"E' una idea che è stata anticipata in una certa misura da Kant nello scritto Per la pace perpetua (1759), e che non ha perduto di attualità, come mostrano le vicende nella ex Jugoslavia. Kant pensa a un'istanza sovrastatale che metta freno ai conflitti senza regole tra gli Stati nazionali, i quali si comportano fra loro come individui nello stato di natura, dando luogo alla guerra di tutti contro tutti. Kant tuttavia intende questa istanza nel mero senso di una federazione fra gli Stati. Per me invece lo stato mondiale è il punto verso il quale tende l'organizzazione politica dell'umanità, Esso sancirà sul piano politico la globalizzazione già avviata dalla tecnica e dall'economia planetarie. Anche senza eliminare gli stati nazionali, lo Stato mondiale ne assorbirà il potere principale. La tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato mondiale e, anzi, in una certa misura lo ha già realizzato. Lo Stato mondiale ne è il corrispettivo politico."

Estratto da I prossimi Titani - Conversazioni con Ernst Jünger di Antonio Gnoli e Franco Volpi

lunedì 18 aprile 2011

I Quattro Sensi della Vita e la struttura dell'India tradizionale


"Quattro sono le stagioni dell'anno, quattro sono le divisioni del giorno e quattro sono pure le epoche che accompagnano l'essere umano dall'infanzia alla vecchiaia. Alle diverse stagioni della vita corrispondono quattro scopi, quattro "sensi" particolari, che devono essere pienamente realizzati dall'individuo se egli intende raggiungere lo scopo finale e supremo, la liberazione dalla finitezza, dalla catena delle rinascite, dalla sofferenza e dal dolore. I quattro sensi della vita sono: Dharma, il dovere, la virtù, la realizzazione di sé sul piano morale; Artha, l'acquisizione di ricchezza e successo, la realizzazione di sé sul piano materiale; Kama, il piacere, la realizzazione di sé sul piano sensuale, e infine Moksha, la liberazione finale, la realizzazione di sé sul piano spirituale. Le pagine dedicate al piacere sono forse le più interessanti, le più sentite dall'Autore, che lumeggia il rapporto fra desiderio, piacere e godimento, con speciale attenzione al valore simbolico e al senso metaforico delle immagini dell'erotismo. Per quanto importanti possano essere i doveri, i compiti e i piaceri su questa terra, è evidente che per lo spitito indù uno solo, in definitiva, è lo scopo della vita, ed esso solo è l'obiettivo vero, degno di essere perseguito, dell'esistenza di ogni persona, come ricorda il proverbio sanscrito: L'uomo deve sacrificarsi alla famiglia, deve sacrificare la famiglia alla casta, la casta al Paese, il suo Paese al mondo, e il mondo a sé stesso."

lunedì 14 marzo 2011

La dottrina delle quattro età


Se l'uomo moderno fino a ieri aveva concepito e esaltato come una evoluzione il senso della storia a lui nota, la verità conosciuta dall'uomo tradizionale è stata l'opposta. In tutte le antiche testimonianze dell'umanità tradizionale si può sempre ritrovare, nell'una o nell'altra forma, l'idea di un regresso, di una caduta: da stati superiori originari gli esseri sarebbero scesi in stati sempre più condizionati dall'elemento umano, mortale e contingente. Un tale processo involutivo avrebbe preso inizio in tempi lontanis-simi e il termine èddico ragna-ròkkr, "oscuramento degli dèi", è quello che meglio lo caratterizza. Né si tratta di un insegnamento che nel mondo tradizionale sia restato in una forma vaga e generica: esso si definì invece in una dottrina organica, ritrovabile essa stessa con un largo margine di uniformità, nella dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza graduale lungo quattro cicli o "generazioni" - tale è, tradizionalmente, il senso effettivo della storia, epperò anche quello della genesi di ciò che, in universale, abbiamo chiamato "mondo moderno". Questa dottrina potrà dunque servire da base a quel che segue.

La forma più nota nella dottrina delle quattro età è quella propria alla tradizione greco-romana. Esiodo parla appunto di quattro ere, controsegnate dai metalli oro, argento, bronzo e ferro, inserendo poi fra le due ultime una quinta èra, l'èra degli "eroi", che però si vedrà aver solo il significato di una parziale e speciale restaurazione dello stato primordiale (1). La tradizione indù ha la stessa dottrina nella forma di quattro cicli chiamati rispettivamente satyà-yuga (o krtà-yuga), tretà-yuga, dvdpara-yuga e kali-yuga (cioè "età oscura") (2), insieme all'imagine del venir meno, in ciascuna di esse, di ciascuno dei quattro piedi o sostegni del toro simboleggiante il dharma, la legge tradizionale. La redazione irànica è affine a quella ellenica: le quattro età sono conosciute e controsegnate da oro, argento, acciaio e "mescolanza di ferro" (3). L'insegnamento caldaico riprende tale veduta quasi negli stessi termini.

In particolare, più recentemente s'incontra l'imagine del carro dell'universo come una quadriga che. condotta dal dio supremo, è trasportata in una corsa circolare da quattro cavalli raffiguranti gli elementi: le quattro età corrispondono al successivo prevalere di ciascuno di tali cavalli, che allora trascina con sé gli altri, secondo la natura simbolica, più o meno luminosa e rapida, dell'elemento di cui esso è la figurazione (4). Per quanto in una trasposizione speciale, la stessa concezione riappare nella tradizione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d'oro, il cui petto e le cui braccia sono d'argento, il ventre e le cosce di rame, e le gambe e i piedi di ferro e argilla: statua, che rappresenta, nelle varie parti così divise, quattro "regni" che si succedono a partir da quello aureo del "re dei re" che ha ricevuto "dal dio del cielo potenza, forza e gloria" (5). Se per l'Egitto si sa già della tradizione riferita da Eusebio circa tre distinte dinastie, formate rispettivamente da dèi, semidei e mani (6), in ciò può aversi l'equivalente delle tre prime età - da quella dell'oro a quella del bronzo - di cui sopra. Così pure, se le antiche tradizioni azteche parlano di cinque soli o cicli solari, di cui i primi quattro corrispondono agli elementi e nei quali, come nelle tradizioni euroasiatiche, figurano le catastrofi del fuoco e dell'acqua (diluvio) e quelle lotte contro i giganti, che vedremo caratterizzare il ciclo degli "eroi" aggiunto da Esiodo agli altri quattro (7), in ciò si può egualmente riconoscere una variante dello stesso insegnamento di cui, peraltro, in altre forme, più o meno frammentariamente, si può ritrovare anche fra altri popoli il ricordo.

All'esame del senso dei singoli periodi è opportuno premettere qualche considerazione generale, in quanto la concezione in quistione sta in aperto contrasto con le vedute moderne circa la preistoria e il mondo delle origini. Sostenere, come tradizionalmente si deve sostenere, che alle origini sia esistito non l'uomo animalesco delle caverne, ma un "più-che-uomo", e che già la più alta preistoria abbia veduto non pure una "civiltà", ma anzi un'"èra degli dèi" (8) - per molti, che in un modo o nell'altro credono alla buona novella del darwinismo, significa fare pura "mitologia". Tuttavia, siccome questa mitologia non siamo noi ad inventarla ora, così resterebbe da spiegare il fatto della sua esistenza, il fatto cioè che nelle testimonianze più remote dei miti e degli scritti dell'antichità non si trovi nessun ricordo che conforti l'"evoluzionismo" e si trovi - invece ed appunto - l'opposto, la costante idea di un passato migliore, più luminoso, super-umano ("divino"); che si sappia dunque così poco di "origini animali", che anzi si parli uniformemente di una originaria parentela fra uomini e numi e che permanga il ricordo di uno stadio primordiale di immortalità, unitamente all'idea, che la legge della morte è intervenuta in un momento determinato e, a dir vero, quasi al titolo di un fatto contro-natura o di un anatema. In due testimonianze caratteristiche, come causa della "caduta" è indicato il mescolarsi della razza "divina" con la razza umana in senso stretto, concepita come razza inferiore, tanto che in certi testi la "colpa" è paragonata alla sodomia, al congiungimento carnale con le bestie. Da una parte, vi è il mito dei Ben-Elohim, o "figli degli dèi", che si unirono alle "figlie degli uomini" facendo sì che alla fine "ogni carne abbia corrotta la sua via sulla terra" (9); dall'altra, vi è il mito platonico degli Atlantidi, concepiti parimenti come discendenti e discepoli degli dèi, che per il loro ripetuto unirsi agli umani perdono l'elemento divino e finiscono col lasciar predominare in loro la natura umana (10). Per epoche relativamente più recenti la tradizione, nei suoi miti, è ricca di riferimenti a razze civilizzatrici e a lotte fra razze divine e razze animalesche, ciclopiche o demoniche. Sono gli Asen in lotta contro gli Elemen-tarwesen; sono gli Olimpici e gli "Eroi" in lotta contro giganti e mostri della notte, della terra o dell'acqua; sono i Deva ari sorti contro gli Asura, "nemici degli eroi divini"; sono gli Inca, i dominatori che impongono la loro legge solare agli aborigeni della "Madre Terra"; sono i Tuatha de Danann che secondo la storia leggendaria dell'Irlanda si affermarono contro le razze mostruose dei Fomori, e così via. Su tale base, si può anche dire che se l'insegnamento tradizionale ricorda - come substrato anteriore alle civiltà create da razze superiori - ceppi, che potrebbero anche corrispondere ai tipi animaleschi e inferiori dell'evoluzionismo, l'evoluzionismo è però caratterizzato dall'errore di considerare tali ceppi animaleschi come originari in assoluto, mentre essi lo sono solo relativamente, e di concepire come forme di "evoluzione" forme di incrocio presupponenti l'apparire di altre razze, superiori biologicamente e come civiltà, venute da sedi loro proprie, razze che sia per la remota antichità (come è il caso per quella "iperborea" o per quella "atlantide"), sia per fattori geofisici, non lasciarono che tracce ardue a ritrovarsi da parte di chi si basi sulle sole testimonianze archeologiche e paleontologiche accessibili alla ricerca profana.

D'altra parte, è molto significativo il fatto che le popolazioni sussistenti ove ancora vigerebbe il presunto stato originario primitivistico e barbaro, poco confortano l'ipotesi evoluzionistica. Sono ceppi che, invece di evolversi, tendono ad estinguersi, col che dimostrano di essere appunto residui degenerescenti di cicli, le cui possibilità vitali erano esaurite, ovvero elementi eterogenei, tronchi lasciati indietro dalla corrente centrale dell'umanità. Ciò vale già per l'uomo di Neanderthal, che nella sua estrema brutalità morfologica sembra avvicinarsi all'"uomo-scimmia". L'uomo di Neanderthal è scomparso misteriosamente in un dato periodo e le razze che sono apparse dopo di esso - l'uomo Aurignac e soprattutto l'uomo Cro-Magnon - e che presentano un tipo superiore, tanto che vi si può riconoscere già il ceppo di molte delle presenti razze umane, non possono esser considerate come "forme evolutive" dell'uomo di Neanderthal. Lo stesso vale per la razza di Grimaldi, anch'essa estintasi. Lo stesso può dirsi per molti popoli "selvaggi" ancora viventi: essi non si "evolvono", essi si estinguono. Il loro "civilizzarsi" non è una "evoluzione", ma quasi sempre una brusca mutazione che colpisce le loro possibilità vitali. Infatti, per la possibilità di evolvere o di decadere esistono dati limiti. Vi sono specie che conservano le loro caratteristiche anche presso a condizioni relativamente diverse da quelle a loro naturali; altre, invece, in tal caso si estinguono; oppure subentrano mescolanze con altri elementi, nelle quali, in fondo, non si ha assimilazione né vera evoluzione. Per il risultato di queste mescolanze vale piuttosto qualcosa di simile ai processi considerati dalle leggi di Mendel sull'ereditarietà: scomparso nel fenotipo, l'elemento primitivistico si mantiene come una eredità latente separata capace di ripullulare in apparizioni sporadiche, però sempre con carattere di eterogeneità rispetto al tipo superiore.

Gli evoluzionisti credono di tenersi "positivamente" ai fatti. Essi non dubitano che i fatti, in sé stessi, sono muti; che stessi fatti, interpretati variamente, danno testimonianza per le tesi più varie. Così è accaduto che qualcuno, pur avendo in vista tutti i dati addotti come prove dalla teoria dell'evoluzione, ha mostrato che essi, in ultima analisi, potrebbero confortare anche la tesi contraria - la quale, sotto più di un riguardo, corrisponde all'insegnamento tradizionale: la tesi, cioè, che, lungi dall'esser l'uomo un prodotto di "evoluzione" delle specie animali, molte specie animali vanno considerate come tronchi laterali in cui ha abortito un impulso primordiale, avente solo nelle razze umane superiori la sua manifestazione diretta e adeguata (11). Vi sono antichi miti di stirpi divine in lotta contro entità mostruose o dèmoni animaleschi prima dello stabilirsi della razza dei mortali (cioè dell'umanità nella sua forma più recente), i quali, fra l'altro, potrebbero riferirsi appunto alla lotta del principio umano primordiale contro le potenzialità animali che esso recava in sé; potenzialità le quali, per così dire, furono separate e lasciate indietro sotto le specie di certi ceppi animali. Quanto ai presunti "progenitori" dell'uomo (quali l'antropoide e l'uomo glaciale), essi rappresenterebbero i primi vinti nella lotta di cui sopra: parti mescolatesi a certe potenzialità animali, o da queste travolte. Se nel totemismo, che si riferisce a società inferiori, la nozione dell'avo mitico collettivo del clan si confonde spesso con quella del dèmone di una data specie animale, in ciò si riflette appunto il ricordo di un consimile stadio di promiscuità.

Senza voler entrare nei problemi, in una certa misura trascendenti, dell'antropogenesi, questa non essendone la sede, la stessa assenza di fossili umani, la sola presenza di fossili animali nella più alta preistoria, potrebbe esser interpretata nel senso che l'uomo primordiale (se pure è lecito chiamar uomo un tipo assai diverso dall'umanità storica) sia entrato per ultimo in quel processo di materializzazione, che ha conferito - dopo che agli animali - ai suoi primi tronchi già degenerescenti, deviati, mescolati con l'animalità, un organismo suscettibile a conservarsi sotto specie di fossile. Va riferito a ciò il ricordo, che in certe tradizioni si ha, di una razza primordiale "dalle ossa deboli" o "molli". Ad esempio, Liezi (cap. V), parlando della regione iperborea, ove prese inizio, come si dirà, il presente ciclo, accenna appunto che "gli abitanti di essa (assimilati a "uomini trascendenti") hanno le ossa deboli". Per un periodo più recente, il fatto che le razze superiori, venute dal Nord, non praticavano l'inumazione ma l'arsione dei cadaveri, è un altro degli elementi da tener presente nel problema dell'assenza di avanzi di ossa.

Si dirà: Ma per questa favolosa umanità manca anche ogni traccia di altro genere! Ora, a parte che vi è della ingenuità nel pensare che esseri superiori non abbiano potuto esistere senza lasciar tracce come rovine, strumenti lavorati, armi e simili, va rilevato che per epoche abbastanza remote esistono residui di opere ciclopiche, per quanto non tutte di tipo civilizzato (il circolo di Stonehenge, le enormi pietre poste in equilibrio miracoloso, la "pedra cansada" nel Perù, i colossi di Tiuhuanac, e simili) che lasciano perplessi gli archeologi circa i mezzi usati anche soltanto per raccogliere e trasportare il materiale necessario. Andando più lontano nei tempi, oltreché si dimentica quel che d'altra parte si ammette o, almeno, non si esclude - antiche terre scomparse, terre di nuova formazione v'è da chiedere se una razza in rapporto spirituale diretto con forze cosmiche, quale la tradizione l'ammette per le origini, risulti inconcepibile, quando non si fosse data a lavorar pezzi di materia, di pietra o di metallo, come fanno coloro che non hanno più nessun altro mezzo per agire sulle potenze delle cose e sugli esseri. Che l'"uomo delle caverne" sia esso che sa di leggenda, sembra del resto risultare di già: si sospetta ormai che nelle caverne preistoriche (molte delle quali tradiscono un orientamento sacrale) l'uomo "primitivo" non aveva le sue abitazioni belluine, ma i luoghi di un culto, rimasto in tale forma anche in epoche indubbiamente "civilizzate" (ad esempio, il culto greco-minoico delle caverne, le cerimonie e i ritiri iniziatici sull'Ida); e che è naturale trovar solo là, per la protezione naturale del luogo, tracce, che altrove il tempo, gli uomini e gli elementi non potevano lasciar parimenti giungere fino ai nostri contemporanei. In genere, è una idea tradizionale basale che lo stato di conoscenza e di civiltà fu lo stato naturale, se non dell'uomo in genere, almeno di determinate élites delle origini; che il sapere fu così poco "costruito" ed acquisito quanto poco la vera sovranità ebbe origine dal basso. Joseph de Maistre, dopo aver messo in luce che quel che un Rousseau e i suoi simili avevano presunto essere lo stato di natura (con riferimento ai selvaggi) è solo l'ultimo grado di abbrutimento di alcuni ceppi dispersi o presi dalle conseguenze dì qualche degradazione o prevaricazione che ne colpì la sostanza più profonda (12), assai giustamente dice: "Circa il cammino della scienza noi siamo accecati da un sofisma grossolano, che ha stregato ogni sguardo: è il giudicare dei tempi, in cui gli uomini vedevano gli effetti nelle cause, sulla base dei tempi, in cui essi risalgono faticosamente dagli effetti alle cause, in cui anzi non ci si occupa che degli effetti, in cui si dice che è inutile occuparsi delle cause, in cui non si sa più che cosa una causa significhi" (13). All'inizio non solo si possedette una scienza, ma "una scienza differente dalla nostra, che prendeva inizio in alto, il che la rendeva perfino pericolosissima. Ciò spiega perché la scienza agli inizi fu sempre misteriosa e racchiusa nei templi, ove essa si spense alla fine, quando questa fiamma non potè servir più se non a bruciare" (14). Ed è allora che, a poco a poco, come surrogato, cominciò a formarsi l'altra scienza, quella puramente umana e empirica, di cui i moderni sono così fieri e con la quale essi hanno pensato di misurare tutto ciò che, per loro, è civiltà. Quest'ultima, su tale base, non ha che il significato di un vano tentativo di risollevarsi, mediante surrogati, da uno stato innaturale, per nulla originario, di degradazione, non più nemmeno avvertito come tale. Ad ogni modo, bisogna rendersi conto che queste e consimili indicazioni poco possono valere per chi non sia disposto a cambiare la propria mentalità. Ogni epoca ha il suo "mito", il quale riflette un determinato clima collettivo. Che, in generale, all'idea aristocratica del venir dall'alto, dell'aver un passato di luce e di spirito, oggi si sia sostituita l'idea democratica dell'evoluzionismo, la quale fa derivare il superiore dall'inferiore, l'uomo dall'animale, la civiltà dalla barbarie - in ciò si ha assai meno il risultato "obiettivo" di una indagine scientifica cosciente e libera, che non uno dei tanti riflessi che pervie sotterranee l'avvento del mondo moderno degli strati inferiori, dell'uomo senza tradizione, ha prodotto necessariamente sul piano intellettuale e culturale. Così non vi è da illudersi; alcune superstizioni "positive" avranno sempre modo di crearsi degli alibi per difendersi. Non tanto dei nuovi "fatti" potranno portare al riconoscimento di diversi orizzonti, quanto un nuovo atteggiamento dinanzi ad essi. Ed ogni tentativo di valorizzare anche dal punto di vista scientifico quel che qui s'intende esporre soprattutto dal punto di vista dogmatico tradizionale, potrà avere dei risultati soltanto fra coloro che siano già predisposti spiritualmente ad accogliere conoscenze del genere.

Julius Evola

Fonte: http://www.juliusevola.it/documenti/template.asp?cod=121

domenica 27 febbraio 2011

Il sogno di Von Ungern

 

"Ungern von Sternberg venne dichiarato la reincarnazione del Mahakala da parte del XIII Dalai Lama Thubten Gyatso."

mercoledì 23 febbraio 2011

Lettera di Tolkien al figlio Christopher


"Mi chiedo (se sopravviveremo a questa guerra) se resterà una nicchia, anche scomoda, per gli antiquati reazionari come me (e te). I grandi assorbono i piccoli e tutto il mondo diventerà più piatto e più noioso. Tutto diventerà una piccola, maledetta periferia provinciale. Quando avranno introdotto il sistema sanitario americano, la morale, il femminismo e la produzione di massa dell’est, nel medio Oriente, nel lontano Oriente, nell’Urss, nella pampa, nel Gran Chaco, nel bacino danubiano, nell’Africa equatoriale, nelle terre più lontane dove esistono ancora stregoni, nel Gondhwanaland, a Lhasa e nei villaggi del profondo Berkshire, come saremo tutti felici. Ad ogni modo, questa dovrebbe essere la fine dei grandi viaggi. Non ci saranno più posti dove andare. E così la gente (penso) andrà più veloce. Il colonnello Knox dice che un ottavo della popolazione mondiale parla inglese e che l’inglese è la lingua più diffusa. Se è vero, che vergogna - dico io. Che la maledizione di Babele possa colpire le loro lingue in modo che possano solo dire "baa baa". Tanto è lo stesso. Penso che mi rifiuterò di parlare se non in antico merciano.
Ma scherzi a parte: trovo questo cosmopolitanesimo americano terrificante."

(La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, 1990, p. 76)



lunedì 21 febbraio 2011


"Il volgere verso il largo, l'affrontare intrepidamente la corrente o l'alto mare, dunque il 'navigare' è sempre apparso spontaneamente come l'atto epico per eccellenza, non pure nel senso immediato, ma anche nel senso spirituale."   

Julius Evola

   

lunedì 7 febbraio 2011

IsMEO - La Cina e l'Ordine Nuovo


Una giustizia superiore nella redistribuzione delle risorse produttive della Terra dovrebbe assicurare a ciascun Popolo le materie si cui esso possa trasfondere la sua capacità di lavoro, intesa come volontà, come intelligenza, come abilità professionale, come pazienza, come resistenza alle fatiche. Entriamo, per questo ponte, nel vivo del problema sociale. Anche qui rivoluzione originale, ordine supremamente sommovitore del mondo. Esso dice: Non vogliamo il vostro oro perchè al di sopra di esso noi poniamo un bene più sacro e più giusto: il LAVORO. E' con esso che misureremo la ricchezza degli uomini e dei popoli; con esso soltanto potranno gli uomini e i Popoli conseguire la loro parte di sole e di felicità sopra la terra.
Per la prima volta dunque gli Eserciti in marcia muovono non per conquistare il vitello d'oro ma per abbatterlo. Per la prima volta il problema assillante della redistribuzione della ricchezza sociale prende in considerazione una soluzione che viene ad eliminare dal fecondo connubio della terra e del lavoro il terzo incomodo: il denaro. Rivoluzioni – come quella francese – che bandirono il verbo dell’Eguaglianza dimenticando che l’eguaglianza può essere un traguardo di partenza ma non è mai un traguardo di arrivo; o che perseguirono – come quella comunista – la livellazione ad ogni costo giungendo al risultato di appiattire a quota zero le vette della personalità umana, non seppero scorgere né la via per detronizzare l’iniquo privilegio dell’oro né la via per elevare il lavoro umano a coefficiente unico di valutazione della ricchezza. Sono le rivoluzioni Fascista e Nazional-Socialista che affrontano con questa visione sommovitrice il processo della maldistribuzione della ricchezza sociale, ne condannano il principale colpevole che è l’oro e ne riabilitano la vittima maggiore: il lavoro.
Come si esprime in calorie il lavoro che il sole ebbe ad immagazzinare attraverso milioni di anni nelle foreste del globo, immaginiamo che si possa esprimere in unità-lavoro il lavoro produttivo trasfuso o da trasfondere in un bene lavorato, e che si possano valutare con titoli o buoni o biglietti a libera circolazione le quote di questi beni che saranno per spettare per diritto di creazione a chi li crea. Eccoci già in presenza di una moneta a corso universale costituita sulla base di capacità personali e di abilità tecniche che sono virtù insostituibili di singoli uomini o di intere Nazioni non assoggettabili né a privilegi né a monopoli né a speculazioni.
Svalutato l’oro e riabilitato il lavoro, non vi sembra di vedere ritornare per incanto, al primo tocco dell’Ordine Nuovo, la felicità nella casa dell’umile cinese, che abbia trovato desolata e sconvolta dal mostro capitalistico moderno? Chi fu ferito nel lavoro trionferà nel lavoro. Chi rimase affamato perché non aveva nelle mani altro arnese che questo, vedrà moltiplicarsi nelle sue mani i doni che solo questo arnese potrà ormai concedere. Il grido della felicità nascerà dal motivo stesso del dolore, come nelle sublimi sinfonie dello spirito. Inconsapevole, il Popolo cinese si accosterà alla mensa della sua redenzione ove siederanno, anfitrioni regali, se pur coperti ancora di ferro, di sangue e di polvere, i nuovi Crociati espugnatori della rupe dominata dall’Idra mercantile, meccanica, materialistica, plutocratica.

Signori, noi auspichiamo alla Cina di sapere scegliere da sé la strada giusta nel bivio in cui si trova il Mondo e nella confusione stessa determinata dal fragore delle armi; in mancanza di che, auspichiamo al Giappone di "infocar li suoi arcioni" per condurla a miglior porto sul lido di tranquilla operosità e di giusto ripartito benessere che il Nuovo Ordine promette ai Popoli dopo tanto travaglio. Nell’esaminare il vero interesse dell’Asia noi stessi abbiamo voluto prescindere da quelle che potrebbero essere le vedute e le posizioni di prestigio di quell’Europa di cui l’Italia è tanta parte. La verità è che non è l’Europa questa che da quattro secoli almeno non conosce solidarietà continentale per aver troppo soggiaciuto alle imposizioni ad agli intrighi di una Potenza che la Natura stessa volle di conformazione insulare quasi a dimostrare l’isolamento del suo brutale egoismo e la segregazione a cui l’Europa avrebbe dovuto addossarla prima di soffrirne tanto disastroso contagio. Questa Europa non può far suo, come buono, ciò che l’Inghilterra ha imbastito in Estremo Oriente. Deve rinnegarlo. La stessa ardua guerra che sostiene per liberarsi dai suoi mali la pone nell’obbligo morale di operare contro sé stessa in Asia come chi operi contro la propria carne pur di riuscire ad estirpare un cancro dall’intero organismo. Ciascuna Potenza europea deve sentire il dovere di sacrificare la parte che possiede nel falso tempio di interessi mercantili elevato in Cina; e ciò sia per trascinare nella demolizione la parte ben più vistosa pertinente al comune avversario e sia perché non esistono due morali nel mondo e non vi è politica solida che possa stare in piedi quando voglia reggersi sull’ambigua speculazione di opposti principi da puntellare l’uno contro l’altro facendo buone in casa d’altri le azioni condannate in casa propria.
L’inventario degli interessi materiali dell’Italia e della Germania in Cina diviene trascurabile a confronto delle luminose posizioni di prestigio che esse acquistano assidendosi col Giappone sull’alto podio da cui dovranno elargire le tavole del nuovo assetto dell’Asia. Scalzate da posizioni materiali, del resto non sempre di primo piano, esse balzeranno alla testa di posizioni politiche universali fondate sull’impero di idee insopprimibili, generatrici di fiducia, di ammirazione, di credito, di forze morali e di ascendenti sempre operanti sulle coscienze dei singoli e delle Nazioni.
Italia e Germania non importano oppio in Asia, ma pensiero.
Il loro pensiero, eccolo: Gratificare alle masse cinesi una giustizia sociale dalla quale esse hanno vissuto così lontane da non comprenderla più tra le possibilità umane; sostituire allo spirito di supina rassegnazione, in molti, ed allo spirito di scetticismo e di speculazione, in altri, il senso equilibrato delle giuste speranze; riabilitare il lavoro; difenderlo contro le aggressioni del capitale e delle industrie esterne; conciliare tra loro i parenti della razza gialla, promuovere una costellazione asiatica al posto dell’attuale bolgia di discordie e di furori; assegnare una funzione collaborativa a ciascun popolo della costellazione determinando i rispettivi apporti complementari di produzioni, di concezioni e di direzioni; inserire nel rigore della mistica nipponica il senso pieghevole della mutua comprensione e della marcia solidale verso un comune avvenire asiatico; dare sicurezza e giustificazione alla missione dei Popoli di razza gialla nel fuso dei loro meridiani, distogliendoli dalle sterili spinte laterali che essi minacciano e da cui sono a loro volta minacciati; e sopra questo nuovo orizzonte, la luce di un’idea in cui veramente si congiungono al vertice i raggi di tre grandi civiltà, latina, germanica, asiatica, chiamate a reggere con l’impero i Popoli di questo antico continente, generoso di sangue e di pensiero.

Fonte: Vincenzo Loiacono, La Cina e L'Ordine Nuovo, Roma, Istituo Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, 1941.